venerdì 26 febbraio 2016

SOLUZIONE TRACCIA SULL' ELEMENTO SOGGETTIVO COME CRITERIO DISTINTIVO TRA REATI.

SOLUZIONE TRACCIA SULL'ELEMENTO SOGGETTIVO COME CRITERIO DISTINTIVO TRA REATI.
Cassazione Penale sez. VI, ud. 01.04.2015 dep. 03.06.2015, n. 23678
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 15 luglio 2014 la Corte d'appello di Roma, decidendo in sede di rinvio a seguito della sentenza della Corte di Cassazione in data 18 marzo 2014, ha confermato la sentenza del Tribunale di Cassino in data 1 agosto 2011, appellata da S. A., limitatamente alla contestazione del reato di rapina di cui al capo sub B), commesso in (OMISSIS), e ha determinato la relativa pena in anni tre, mesi sei di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa.
2. Avverso la sentenza sopra indicata ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, deducendo violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 628 e 393 c.p., per avere la Corte d'appello erroneamente escluso il reato meno grave sulla base dell'asserita illiceità del credito vantato - quando invece nella precedente decisione di secondo grado la Corte aveva riconosciuto che il credito dello S. era legittimo e non riconducibile ad una cessione di stupefacente - ed aveva, altresì, correttamente ritenuto che la violenza può essere indirizzata a persona diversa da quella che si trova in conflitto d'interessi con l'agente, essendo evidente, nel caso di specie, la connessione tra condotta dell'imputato volta a far valere il preteso diritto e la pretesa violenza in danno del padre convivente di M.F..
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e va dunque rigettato per le ragioni di seguito indicate.
2. Nel caso in esame, i Giudici di merito hanno congruamente osservato in punto di fatto che la violenta condotta posta in essere dall'imputato - consistita nell'entrare all'interno dell'abitazione dei coniugi M.G. e T.G., spingendo con forza la porta d'ingresso, spintonando contro il muro il M. e strappandogli di dosso la catenina d'oro al collo, del valore di circa trecento Euro, di cui si impossessava sottraendola alla persona offesa - non è stata rivolta verso il presunto debitore, ossia M.F., ma verso i suoi stretti congiunti, del tutto estranei al presunto rapporto obbligatorio, per il solo fatto di averli trovati in casa.
Sulla base della ricostruzione dei fatti operata dal Giudice di primo grado, inoltre, la Corte d'appello ha posto in rilievo, con adeguata e logica motivazione, il profilo della non azionabilità in giudizio del preteso credito, in quanto riconducibile ad una cessione di stupefacenti, anzichè ad un asserito, e non provato, prestito per l'acquisto di un motorino.
3. Del tutto coerente, dunque, deve ritenersi la conclusione cui sono pervenuti i Giudici di merito, nell'osservare che il diverso reato di cui all'art. 393 c.p. avrebbe potuto configurarsi nella sola ipotesi, non riscontrata nel caso in esame, in cui la condotta, fondata su un credito riconosciuto dall'ordinamento giuridico, fosse stata indirizzata nei confronti della persona ritenuta in buona fede debitrice.
Si tratta di una conclusione in linea con l'incontestato principio di diritto che pone l'elemento di differenziazione tra il delitto di rapina e quello di esercizio arbitrario nell'elemento soggettivo, che per il primo reato consiste nella ragionevole opinione dell'agente di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa giuridicamente, mentre per la rapina si concretizza nel fine di procurare a sè o ad altri un profitto ingiusto con la consapevolezza che quanto si pretende non compete e non è giuridicamente azionabile (v. Sez. 2, n. 43325 del 18/10/2007, dep. 22/11/2007, Rv. 238309).
Al riguardo, peraltro, deve soggiungersi, come puntualmente rimarcato dai Giudici di merito, che nello schema tipico del reato di ragion fattasi non rientra certamente una violenta "esecuzione" presso terzi delle proprie ragioni creditorie.
Nella giurisprudenza di questa Suprema Corte (da ultimo, v. Sez. 3, n. 15245 del 10/03/2015, dep. 14/04/2015, Rv. 263019; Sez. 2, n. 38517 del 23/09/2008, dep. 10/10/2008, Rv. 241460; Sez. 2, n. 43325 del 18/10/2007, dep. 22/11/2007, cit; Sez. 2, n. 8753 del 17/03/1987, dep. 28/07/1987, Rv. 176461) si è infatti evidenziato che, anche in presenza di una ragionevole opinione di esercitare un proprio diritto, allorchè la violenza o la minaccia si estrinsecano in forme di tale forza intimidatoria che vanno al di là di ogni ragionevole intento di far valere un diritto, allora la condotta risulta finalizzata a conseguire un profitto che assume ex se i caratteri dall'ingiustizia, con la ulteriore conseguenza che le modalità violente di tale condotta vengono ad integrare gli estremi del reato di cui all'art. 628 c.p.. Pertanto, in determinate circostanze e situazioni, anche la minaccia dell'esercizio di un diritto, in sè non ingiusta, può diventare tale, se si estrinseca con modalità violente che denotano soltanto la volontà di impossessarsi comunque della cosa, e che fanno sfociare l'azione nel reato previsto dall'art. 628 c.p., integrando tutti gli elementi costitutivi di tale figura delittuosa.
4. Per quel che attiene ai prospettati vizi motivazionali, deve rammentarsi che nel giudizio di legittimità deve essere accertata la coerenza logica delle argomentazioni seguite dal giudice di merito nel rispetto delle norme processuali e sostanziali. Ai sensi del disposto di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è manifestamente carente di motivazione o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti operata nel caso in esame dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (S.U. 19.6.96, De Francesco). Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (S.U. 2.7.97 n. 6402, Dessimone).
5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente ex art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 1 aprile 2015.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2015




giovedì 25 febbraio 2016

PARERE SULL'ELEMENTO SOGGETTIVO COME CRITERIO DISTINTIVO TRA REATI.

ELEMENTO SOGGETTIVO COME CRITERIO DISTINTIVO TRA REATI.
Traccia parere
Tizio acquistava da Mevio 5 grammi di cocaina ad un prezzo di euro 500.
Non avendo con sè tutti i soldi, il ragazzo prometteva al pusher di pagarli la restante somma di euro 300 entro 5 giorni. Passate più di due settiamane dall’acquisto della droga, Tizio non si era più fatto vivo per saldare il proprio debito.
A questo punto Mevio si recava all’abitazione di Tizio che conviveva con i propri genitori.
Una volta entrato nell’appartamento i due iniziavano un’accesa discussione che provocava l’intervento del padre di Tizio teso a calmare gli animi.
All’arrivo del padre, Mevio notava  che l’uomo aveva indosso una collanina d’oro di discreto valore e con l’intenzione di farsi giustizia da solo gliela strappava con violenza e se ne appropriava.
Il padre di Tizio si rivolge al vostro studio legale per sporgere querela nei confronti di Mevio.
Il candidato proceda al corretto inquadramento dei fatti da un punto di vista penale.

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sabato 20 febbraio 2016

SOLUZIONE PARERE SUL CONCORSO DI REATI (RAPINA E SEQUESTRO DI PERSONA).

SOLUZIONE PARERE CONCORSO DI REATI (RAPINA E SEQUESTRO DI PERSONA).
Cassazione penale, sez. II, 19 maggio 2015 – 25 maggio 2015, n. 22096

Fatto
Con sentenza del 10 gennaio 2014, la Corte di appello di Napoli in riforma della sentenza pronunciata il 17 maggio 2012 dal Tribunale della medesima città nei confronti di C.P., D.S. V., M.G., S.E. e V. G., ha assolto perchè il fatto non sussiste il C. dai reati di cui ai capi B1, C1, D1, E1, F1, G1, I1, Y1, per il processo riunito capi 2) e 4) della imputazione; il D.S. dai reati di cui ai capi B1, F1, G1; il M. dal reato di cui al capo 11; il S. dai reati di cui ai capi H1, J1, K1, Y1, per il processo riunito capi 2) e 4) dell'imputazione; il V. dal reato di cui al capo 2). Ha conseguentemente rideterminato le pene rispettivamente comminate per i residui reati a C. nella misura di anni 12 e mesi 6 di reclusione ed Euro 4.000 di multa; al D.S. nella misura di anni 8 e mesi 6 di reclusione ed Euro 3.700 di multa; al V. nella misura di anni 4 e mesi 6 di reclusione ed Euro 1.800 di multa; al M. nella misura di anni 6 e mesi 10 di reclusione ed Euro 2.900 di multa - come da ordinanza di correzione di errore materiale del 25 marzo 2014 - ed al S., ritenuta la continuazione tra i reati di cui al presente processo con quelli di cui alla sentenza della Corte di appello di Napoli del 16 marzo 2010, irrevocabile il 15 marzo 2011, nella misura complessiva di anni 12 di reclusione ed Euro 3.700 di multa, come da ordinanza di correzione di errore materiale del 25 marzo 2014.
Il procedimento, promosso per i reati di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di rapine ad agenzie assicurative, per varie rapine e reati concernenti le armi, vedeva in appello circoscritto l'ambito della devoluzione, giacchè, a seguito della rinuncia ai motivi di gravame concernenti il merito della responsabilità da parte del C. e del D.S. ed ai motivi di gravame in ordine alla responsabilità per reati diversi da quelli riguardanti le armi da parte del S., il profilo della responsabilità oggetto di giudizio si limitava alle posizioni del M. e del V.. Sul rilievo che nei vari episodi contestati non fossero state rinvenute armi gli imputati, anche in ragione dell'effetto estensivo della impugnazione, venivano tutti assolti dai reati concernenti le armi, loro rispettivamente ascritti.
Veniva accolto poi il motivo di impugnazione del S. relativo alla applicazione della continuazione rispetto ai fatti giudicati dalla medesima Corte con sentenza del 16 marzo 2010, mentre nel resto veniva reputato corretto il giudizio di primo grado, con la rideterminazione, per tutti, delle pene applicate.
Avverso la sentenza di appello tutti gli imputati suddetti hanno proposto ricorso per cassazione. Nel ricorso proposto nell'interesse di V.G. si lamenta che i giudici dell'appello si siano nella sostanza limitati a richiamare la motivazione posta a base della sentenza di primo grado, censurandosi il valore probante delle individuazioni fotografiche, in quanto influenzate dalle immagini pubblicate sui giornali. Si lamenta poi vizio di motivazione in relazione alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche ed in merito alla sollecitata riduzione della pena.
Nel ricorso proposto personalmente da D.S.V. viene genericamente prospettata la violazione dell'art. 599 cod. proc. pen. la eccessività della pena e la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Nel ricorso proposto nell'interesse di S.E. si lamenta nel primo motivo che nel giudizio di primo grado sia stata respinta la eccezione difensiva relativa al legittimo impedimento dell'imputato a presenziare alla udienza per sopravvenuto stato detentivo in riferimento ad altro processo, sul rilievo che l'impedimento stesso non sarebbe stato tempestivamente comunicato in quanto avvenuto soltanto alla udienza del 17 maggio 2012, trattandosi di tesi smentita dalle Sezioni unite di questa Corte. Si lamenta, dunque, che su tale eccezione di nullità la Corte di appello abbia omesso di pronunciarsi. Nel secondo motivo si censura la mancanza di motivazione in ordine all'aumento per continuazione tra i reati oggetto del presente processo e quelli di cui alla sentenza della Corte di appello di Napoli del 16 marzo 2010, divenuta irrevocabile il 15 marzo 2011. L'aumento sarebbe infatti eccessivo in quanto riferito ad un numero di episodi di rapina inferiore a quelli giudicati nel presente procedimento e per i quali la quantificazione della continuazione era di gran lunga inferiore. Non sarebbe inoltre spiegata la ragione per la quale sia stata ritenuta più grave la rapina di cui al capo b) mentre quella oggetto della sentenza del 16 marzo 2010 aveva fruttato un bottino maggiore: pertanto era quella condanna da prendere a base per la determinazione del trattamento sanzionatorio. Anche a tale riguardo mancherebbe una congrua motivazione da parte dei giudici a quibus. Nel terzo motivo si rinnovano le censure relative alla insussistenza del reato di cui all'art. 605 cod. pen. in riferimento alla rapina di cui al capo I), in quanto i dipendenti della agenzia assicurativa non furono chiusi nell'antibagno e pertanto la limitazione della loro libertà fu limitata al tempo strettamente necessario per la consumazione della rapina.
Anche nei confronti di M.G. si formula la stessa eccezione di mancato riconoscimento di impedimento in primo grado per lo stato detentivo. Infatti, si osserva nel ricorso, il M. rinunciava espressamente a partecipare alla sola udienza del 5 novembre 2013 esprimendo invece la volontà di partecipare a tutte le altre udienze; sicchè, la mancata traduzione dell'interessato dopo la dichiarazione di revoca della rinuncia violerebbe il suo diritto ad intervenire in giudizio. Nella specie, la Corte di appello, pur in assenza di una manifestazione di volontà a rinunciare alla partecipazione alla udienza, ha ritenuto di celebrare ugualmente l'udienza del 29 novembre 2013, in tal modo ledendo il diritto dell'imputato a presenziare, avendo omesso la citazione del medesimo per tutte le altre udienze. Si censura, poi, la sussistenza del delitto di cui all'art. 605 cod. pen. in forza delle stesse considerazioni che il medesimo difensore ha articolato nel terzo motivo del ricorso proposto nell'interesse del S.. Tanto per il S. che per il M., con separati motivi il medesimo difensore lamentava la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Nel ricorso proposto nell'interesse di C.P. si lamenta vizio di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed in merito ai criteri di commisurazione della pena, in quanto i giudici dell'appello avrebbero fatto leva esclusivamente sulle modalità di consumazione dei vari reati addebitati all'imputato. Si lamenta, infine, che la Corte territoriale abbia disatteso la richiesta di applicazione del vizio parziale di mente sulla base di apprezzamenti di alcuni testi senza tener conto degli apporti difensivi e della giovane età e delle condizioni di salute dell'imputato.
I ricorsi sono tutti palesemente inammissibili. Le doglianze prospettate nell'interesse del V., del D.S. e del C., oltre che a profilare aspetti che pertengono esclusivamente agli apprezzamenti del merito, come tali eccentrici rispetto alla odierna sede di legittimità, si limitano nella sostanza a riproporre le medesime questioni già devolute ai giudici del gravame e da questi motivatamente disattese, senza che il relativo apporto argomentativo abbia poi formato oggetto di una autonoma ed articolata critica impugnatoria, specie per ciò che attiene ai criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio ed alla mancata concessile delle attenuanti generiche, in tal modo incorrendo in un palese vizio di aspecificità dei motivi. La giurisprudenza di questa Corte è infatti ormai da tempo consolidata nell'affermare che deve essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. e), alla inammissibilità della impugnazione (Cass., Sez. 1, 30 settembre 2004, Burzotta; Cass., Sez. 6, 8 ottobre 2002, Notaristefano; Cass., Sez. 4, 11 aprile 2001 Cass., Sez. 4, 29 marzo 2000, Barone; Cass., Sez. 4, 18 settembre 1997, Ahmetovic).
Parimenti manifestamente destituiti di fondamento sono i ricorsi rassegnati nell'interesse del S. e del M.. Quanto al S. va rilevato che la prima eccezione in rito è assorbita dalla circostanza che l'imputato stesso in udienza ha dichiarato di rinunciare a tutti i motivi di appello - tra i quali, dunque, anche quello relativo alla eccezione di che trattasi - tranne quelli concernenti i reati relativi alle armi, per i quali è intervenuta assoluzione, e quelli sulla quantificazione della pena. Le censure formulate a quest'ultimo riguardo sono tutte palesemente infondate. A proposito della determinazione dell'aumento di pena a titolo di continuazione - che costituiva domanda impugnatoria che ha trovato accoglimento - va infatti osservato che questa Corte non ha mancato di puntualizzare che il giudice della cognizione che, in sede di applicazione della continuazione, individui il reato più grave in quello al suo esame e i reati-satellite in quelli già definitivamente giudicati, non è vincolato, nella rideterminazione della complessiva pena, dalla misura stabilita dalla sentenza irrevocabile relativa ai reati-satellite. (Sez. 1, n. 5832 del 17/01/2011 - dep. 16/02/2011, P.G. in proc. Razzaq, Rv. 249397); mentre per ciò che attiene alla individuazione in concreto del più grave reato fra reati di pari gravità edittale, ove la continuazione debba essere applicata in sede di cognizione e non in executivis, la relativa determinazione presuppone un accertamento di fatto - come ora pretenderebbe il ricorrente - che non può essere devoluto alla sede di legittimità, ma doveva formare oggetto, se del caso, di uno specifico petitum al giudice al quale era stata richiesta l'applicazione della continuazione.
Parimenti destituita di fondamento è la insistita richiesta di esclusione del reato di cui all'art. 605 cod. pen., in quanto la giurisprudenza di questa Corte, sin da epoca ormai risalente è consolidata nel ritenere che il delitto di sequestro di persona resta assorbito dal reato di rapina aggravata a norma dell'art. 628 c.p., 2 cpv., n. 2 (reato complesso) soltanto quando la violenza usata per il sequestro si identifichi e si esaurisca col mezzo immediato di esecuzione della rapina stessa, non quando invece ne preceda l'attuazione con carattere di reato assolutamente autonomo anche se finalisticamente collegato con quello successivo (rapina), ancora da porre in esecuzione, o ne segua l'attuazione per un tempo non strettamente necessario alla consumazione della rapina e, perciò, con carattere di condotta delittuosa autonoma, anche se finalisticamente collegata a detto reato. Pertanto la privazione della libertà personale costituisce ipotesi aggravata del delitto di rapina e rimane in esso assorbita solo quando la stessa si trovi in rapporto funzionale con la esecuzione della rapina medesima, mentre nell'ipotesi in cui la privazione della libertà non abbia una durata limitata al tempo strettamente necessario alla consumazione della rapina, ma si protragga oltre tale termine temporale, il reato "de quo" concorre con il delitto di sequestro di persona, (da ultimo, in tal senso, v. Sez. 2, n. 3604 dell'8 gennaio 2014, Palanza). La coercizione della libertà personale, poi, che costituisce l'elemento materiale del delitto di sequestro di persona, è strutturalmente configurata dal legislatore alla stregua di fattispecie a forma libera, nel senso che per realizzare il fatto tipizzato dall'ordinamento, non si richiede necessariamente l'impiego di mezzi violenti o una coercizione di tipo fisico, bastando anche la semplice attività di intimidazione, la quale, ove non si esaurisca nel contesto ed allo scopo della realizzazione del delitto di rapina, ben può integrare - come nella vicenda in esame - il concorso delle due figure criminose. La circostanza, dunque, che la porta del locale, ove i dipendenti della agenzia vennero costretti con minaccia ad intrattenersi anche dopo l'esaurimento della condotta criminosa, fosse stata lasciata aperta, si rivela del tutto inconferente, proprio perchè ciò che rileva è la perdita "coattiva" della libertà personale ed il permanere di tale status per un tempo apprezzabile dopo l'allontanamento dei rapinatori. Le doglianze attinenti alla dosimetria della pena ed alla mancata concessione delle attenuanti generiche sono manifestamente infondate alla luce della motivazione del tutto congrua offerta al riguardo dai giudici a quibus.
Quanto al M., si lamenta che l'imputato avrebbe rinunciato a comparire per la sola udienza del 5 novembre 2013, con la conseguenza che la mancata traduzione per l'udienza del 29 novembre 2013 avrebbe determinato una lesione del diritto di difesa: l'assunto è del tutto inconsistente, non solo e non tanto perchè la rinuncia non risulta specificatamente circoscritta ad una determinata udienza, quanto e sopratutto perchè, come risulta dagli atti, lo stesso imputato ha rinunciato espressamente a comparire per l'udienza del 29 novembre 2013, ove il difensore presente nulla ha eccepito. A proposito, poi, delle doglianze relative alla ritenuta ipotesi di sequestro di persona si è già detto, mentre le censure attinenti alla mancata concessione delle attenuanti generiche sono palesemente incongrue, tenuto conto della adeguatezza motivazionale esibita sul punto dalla sentenza impugnata.
Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 ciascuno alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 19 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2015


venerdì 19 febbraio 2016

TRACCIA PARERE SUL CONCORSO DI REATI (RAPINA E SEQUESTRO DI PERSONA).

CONCORSO DI REATI (RAPINA E SEQUESTRO DI PERSONA).
Traccia parere.
Tizio e Caio, dotati di armi-giocattolo, entravano nella Banca Beta e, con la minaccia dell’uso delle armi, radunavano tutti i dipendenti nella stanza del direttore. In questo modo procedevano indisturbati alla sottrazione di tutto il denaro presente nell’agenzia. Prima di lasciare i locali della Banca, Tizio e Caio minacciavano  i presenti a non uscire dalla stanza e a non contattare l’esterno nei successivi trenta minuti, altrimenti un loro complice li avrebbe uccisi. Nonostante, dunque, tutte le porte dell’edificio fossero aperte, i dipendenti seguivano le indicazioni dei malviventi e restavano chiusi nell’immobile. Dopo essere stati riconosciuti e arrestati, Tizio e Caio si rivolgono al vostro studio legale per ottenere parere legale motivato sulla propria posizione processuale e sulla possibile difesa.

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giovedì 11 febbraio 2016

SOLUZIONE PARERE REATO PROPRIO E QUALIFICA DI PUBBLICO UFFICIALE

SOLUZIONE PARERE 
Cassazione penale, sez. V, 2 ottobre 2014 – 2 dicembre 2014, n. 50345

FATTO
1. G.S. è stata condannata alla pena di mesi sei di reclusione dal tribunale di Monza, nonchè al risarcimento dei danni in favore della parte civile, in quanto ritenuta responsabile dei seguenti reati:
a) dell'art. 348 c.p., per aver abusivamente esercitato la professione di avvocato;
b) del medesimo articolo per aver assunto mandato professionale ad assistere F.A.;
c) dell'art. 476 per aver formato un falso decreto di archiviazione;
d) dell'art. 640, perchè, con artifici e raggiri consistiti nel presentarsi quale avvocato a F.A., si procurava l'ingiusto profitto rappresentato dal corrispettivo da costui versato in relazione all'attività professionale asseritamente prestata;
e) del reato di cui all'articolo 485 perchè falsificava la firma di F.A. in calce all'atto di nomina di difensore di fiducia a lei conferito.
2. La corte d'appello di Milano dichiarava non doversi procedere in ordine ai capi a) ed e) di cui sopra perchè estinti per intervenuta prescrizione. Confermava nel resto la sentenza di condanna, rideterminando la pena in mesi quattro di reclusione (in aumento di quella inflitta con sentenza del gip del tribunale di Monza del 25 settembre 2007).
3. Contro la predetta sentenza propone ricorso per cassazione l'imputata per i seguenti motivi:
1. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 348 c.p., art. 110 c.p.p., e art. 39 disp. att. c.p.p.;
sotto tale profilo-: sostiene che l'autenticazione del mandato difensivo non costituisca atto tipico della professione forense, se ad esso non segue lo svolgimento di attività processuale. In subordine, ritiene che la fattispecie sia assorbita, quale elemento necessario (l'artifizio), nel reato di truffa.
2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 476 e 482 c.p., nonchè artt. 516 e 522 c.p.p.; sostiene la ricorrente che il reato di cui all'art. 476 sia reato proprio e che, nel caso di specie, proprio per il fatto di non essere titolare della funzione forense, il fatto dovrebbe essere qualificato come falsità materiale commessa da privato (art. 482 c.p.). In subordine, sostiene la incapacità del falso di trarre in inganno soggetti estranei all'ordinamento giudiziario, essendo l'atto diretto a persona "addetta all'ordinamento".
3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'articolo 640 del codice penale e 192 cod. proc. pen.; sostiene la ricorrente che non vi sia stato danno per il F., in quanto a lui è stato consegnato l'importo complessivo di Euro 5.000,00 e tali somme non potevano non essere giustificate se non proprio in ragione delle attività legittime svolte nel suo interesse dell'imputato.
4. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 89 c.p., per omessa concessione dell'invocata attenuante dell'infermità mentale.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è parzialmente fondato con riferimento al secondo motivo di ricorso. Il primo motivo è destituito di fondamento;
invero, integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita l'abilitazione statale, provveda all'autenticazione della sottoscrizione del mandato difensivo prima di aver ottenuto l'iscrizione all'albo professionale (Sez. 6, n. 27440 del 19/01/2011, Sgambati, Rv. 250531); poco importa che nel caso trattato dalla sentenza richiamata l'imputato avesse poi svolto attività giudiziaria, dal momento che la predetta pronuncia non aveva collegato la responsabilità al successivo uso del mandato, ma all'atto in sè. Per comprenderlo è sufficiente riportare un passo della motivazione, che così recita: "La sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e dà conto, con motivazione adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene. E' indubbio che l'autenticazione della sottoscrizione del mandato difensivo, così deve essere qualificato l'atto che viene qui in rilievo, è atto tipico della professione forense e, in quanto tale, riservato a chi legittimamente tale professione può esercitare (art. 39 disp. att. c.p.p.). L'art. 348 c.p. è norma penale in bianco, che presuppone l'esistenza di norme giuridiche diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali prescrivano una speciale abilitazione dello Stato ed impongano l'iscrizione in uno specifico albo. Ne consegue che è abusivo l'esercizio della professione di avvocato da parte di colui che, pur avendo conseguito l'abilitazione statale, non sia iscritto all'albo professionale, considerato che tale iscrizione è imposta da norma cogente quale condizione inderogabile per l'esercizio della professione (R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 1). Lo Sgambati, nel momento in cui (24/3/2004) pose in essere l'atto tipico innanzi citato, non era ancora iscritto nell'albo professionale, iscrizione intervenuta solo il 2 aprile successivo, e non poteva, quindi, assumere il titolo di avvocato nè esercitare le relative funzioni.
La condotta posta in essere dall'imputato, pur nella sua oggettiva marginalità, della quale il giudice di merito ha tenuto conto nel determinare il trattamento sanzionatorio, integra il reato contestato".
2. D'altronde, l'esercizio abusivo della professione legale, ancorchè riferito allo svolgimento dell'attività riservata al professionista iscritto nell'albo degli avvocati, non implica necessariamente la spendita al cospetto del giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta, sicchè il reato si perfeziona per il solo fatto che l'agente curi pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato (Sez. 5, Sentenza n. 646 del 06/11/2013, Rv. 257955).
3. Il secondo motivo di ricorso, invece, merita accoglimento; la motivazione della corte d'appello sul punto è oscura e non appagante; in ogni caso la sentenza conferma la condanna per il reato di cui all'art. 476, che presuppone la qualifica di pubblico ufficiale del suo autore. Nel caso di specie, l'imputata, non avendo la qualifica millantata,..difettava di un presupposto fondamentale del reato. Il fatto, dunque, deve essere riqualificato come falsità materiale commessa dal privato ai sensi dell'art. 482 c.p.; non vi è violazione del principio di correlazione, atteso che la contestazione in fatto era specifica, nè vi è violazione dei diritti della difesa, atteso che la riqualificazione giuridica in tal senso è stata sollecitata proprio dalla parte. Consegue, all'accoglimento del ricorso, l'annullamento della sentenza in parte qua ed il rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio, che dovrà evidentemente subire una diminuzione, attesa la minore pena edittale prevista per tale reato.
4. Non può essere accolta, invece, la censura relativa all'assorbimento del reato in quello di cui all'art. 640, in quanto gli artifici utilizzati consistevano non tanto nell'assumere il mandato difensivo, quanto piuttosto nel presentarsi quale avvocato.
5. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato, atteso che per escludere il danno a carico della persona offesa non è sufficiente che questa abbia ricevuto alcune somme di denaro, dovendosi altresì provare che quanto ricevuto era non inferiore a quello che egli avrebbe potuto recuperare se la G. fosse stata effettivamente un avvocato ed avesse proceduto giudizialmente.
D'altronde, la stessa corte d'appello, con valutazione di merito non sindacabile in cassazione, ha ritenuto sussistente un danno conseguente alla mancata difesa nei procedimenti penali. Infine, si deve osservare che il riferimento ai Euro 5.000 ricevuti dalla G. sia tutt'altro che certo, dal momento che in sentenza si afferma che l'assegno di Euro 2.500,00 era stato sottratto ad un terzo ed abusivamente riempito e quindi non vi è prova che sia stato regolarmente incassato dalla persona offesa, dovendosi anzi presumere il contrario.
6. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile in quanto diretto a censurare una valutazione di merito che i giudici di primo e secondo grado hanno condotto con motivazione più che sufficiente e priva di vizi logici evidenti.
7. Ne consegue che il ricorso deve essere accolto, limitatamente al reato di cui all'art. 476 c.p., da riqualificarsi ai sensi dell'art. 482 c.p., con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
8. Considerato che la sentenza di condanna, nella parte di accertamento, della responsabilità, passa in giudicato, dovendosi solo più quantificare la sanzione, l'eventuale decorso della prescrizione in data successiva alla presente sentenza non assumerà più alcun rilievo.
PQM
P.Q.M.
riqualificato il fatto di cui al capo B del procedimento numero 10.633-07 nel reato di cui all'art. 482 c.p., annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Rigetta nel resto.
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2014.
Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2014









mercoledì 10 febbraio 2016

TRACCIA PARERE SU REATO PROPRIO E QUALIFICA DI PUBBLICO UFFICIALE

REATO PROPRIO E QUALIFICA DI PUBBLICO UFFICIALE.
Traccia parere.
Tizia, dottoressa in giurisprudenza, subito dopo la laurea si iscrive ad un sito di servizi legali attraverso il quale viene contattata da Caio. Quest’ultimo, denunciato dalla moglie per maltrattamenti in famiglia, chiede l’assistenza legale di Tizia in vista del possibile e futuro processo. Tizia, allettata dal guadagno imminente, riferisce a Caio di essere un avvocato e di accettare l’incarico per un compenso di 5.000,00 euro. Dopo aver ricevuto il bonifico di metà della suddetta somma, incontra Caio e, ottenuto il mandato scritto per la difesa, lo controfirma ai fini dell’autenticazione della firma del cliente. Non potendo compiere effettivamente le attività necessarie per tutelare Caio, al fine di ottenere la seconda parte del pagamento, Tizia scrive un decreto di archiviazione a firma del GIP Romolo del Tribunale di Roma e lo trasmette a Caio, assumendosi i meriti del provvedimento ottenuto. Dopo circa 3 mesi dal pagamento del saldo di 2.500,00 euro, a Caio viene notificata la richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Roma. A questo punto Caio denuncia all’autorità giudiziaria i descritti fatti.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizia, rediga parere motivato sulle possibili conseguenze penali della sua condotta.


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venerdì 5 febbraio 2016

SOLUZIONE PARERE CONCORSO DI REATI (STALKING, VIOLENZA PRIVATA E DIFFAMAZIONE).

SOLUZIONE 
Cassazione penale, sez. V, 11 novembre 2014 – 16 gennaio 2015, n. 2283

FATTO
1. Il Tribunale di Arezzo, con sentenza riformata, limitatamente alla pena, dalla Corte di appello di Firenze in data 4/10/2013, ha ritenuto C.S. responsabile, nei confronti della ex- convivente D.S., di atti persecutori (art. 612 bis c.p., capo A), di violazione delle prescrizioni dettate dal giudice civile in ordine all'affidamento della prole (art. 388 cod. pen., capo B), di violenza privata (art. 610 c.p., capo C) e violazione di domicilio (capo D); per l'effetto, lo ha condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena subordinato al versamento, a favore della parte civile, di una restante somma dovuta a titolo di provvisionale.
Alla base della decisione vi sono le dichiarazioni della persona offesa e di numerosi testi, anche di appartenenti al Servizio Sociale, nonchè documentazione varia.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputato, l'avv. Nadia Frese, con sei motivi, tutti incentrati sulla violazione di legge e il vizio di motivazione.
Col primo lamenta - in ordine al delitto di atti persecutori - che non sia stata fornita risposta alle critiche mosse dalla difesa alla sentenza di primo grado, laddove si addebitava al Tribunale di non aver tenuto conto del motivo che aveva indotto l'imputato a ricercare, ripetutamente, la donna: quello di conservare i rapporti col figlio minore, ingiustamente ostacolati dalla madre. Per questo motivo difetterebbe l'elemento soggettivo del reato.
Col secondo contesta l'autonoma sussistenza dei reati di cui agli artt. 612 bis, 610 e 614 c.p., che devono ritenersi assorbiti - a giudizio della difesa - in quello dell'art. 388 c.p..
Col terzo contesta, sotto altro profilo, la sussistenza della violazione di domicilio, in quanto - sostiene - l'abitazione di D. era preceduta da un'area non recintata. Pertanto, l'accesso a quest'area non può costituire reato. Nello stesso motivo contesta la sussistenza del reato di violenza privata, in quanto - sostiene - "manca una specifica condotta direttamente produttiva di una situazione idonea ad incidere sulla libertà psichica (di determinazione ed azione) del soggetto passivo".
Col quarto sostiene l'assorbimento del reato di cui all'art. 610 c.p., in quello di cui all'art. 612 bis c.p., "rappresentando una delle modalità esecutive della più grave condotta di cui all'art. 612 bis c.p.".
Col quinto lamenta assenza di motivazione in ordine alle attenuanti generiche, richieste dalla difesa e negate dal giudice; in ordine alla commisurazione della pena, incomprensibilmente applicata in misura assai superiore ai minimi edittali; in ordine alla mancata concessione del beneficio della non menzione, pure richiesto dalla difesa e non disposto in sentenza.
Col sesto lamenta che - in violazione di legge - sia stata subordinata la sospensione condizionale della pena al pagamento di una provvisionale prima del passaggio in giudicato della sentenza (entro due mesi).
DIRITTO
E' fondato il sesto motivo di ricorso; sono inammissibili - per le ragioni di seguito esposte - tutti gli altri.
1. Il primo motivo è inammissibile per genericità. Con consolidato orientamento, questa Corte ha avuto modo di precisare che "è inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.
La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità...." (Cass., sez. 4, n. 5191 del 29/3/2000, Rv. 216473. Da ultimo, Cass., n. 28011 del 15/2/2013).
In particolare il giudice di merito ha evidenziato come il quadro delineato dalla persona offesa e dai numerosi testi esaminati deponga inequivocabilmente per un atteggiamento vessatorio e violento dell'imputato nei confronti della ex convivente, a cagione della sua natura possessiva e prevaricatrice, manifestatasi con una quantità enorme di telefonate, dai toni offensivi e volgari; con la pretesa di sottomettere la donna alla propria volontà, specie nella gestione del figlio comune; con la sistematica inosservanza delle prescrizioni imposte dal giudice civile a tutela dei diritti dei genitori e degli interessi del minore. Il tutto generato dalla pretesa del C. di tenere la donna legata a sè nonostante la contrarietà di quest'ultima alla prosecuzione del rapporto, con la conseguenza di prostrare psicologicamente la ex-convivente e costringerla a ricorrere alle cure di uno specialista della mente. Per contro, solo assertiva e scollegata dal risultato istruttorio si è rivelata, per i giudicanti, la tesi difensiva - secondo cui tutto ha avuto origine e si spiega con l'ostinazione della D. di impedire la frequentazione del C. col figlio - posto che di una simile evenienza non sussiste alcuna prova o indizio: nemmeno le dichiarazioni dell'imputato, che, sebbene presente a tutte le udienze dibattimentali, si è ben guardato dall'esporla dialetticamente e motivatamente. Di conseguenza, il motivo di ricorso, siccome inutilmente ripetitivo della tesi sostenuta nel giudizio, va disatteso, non essendo suffragato da argomenti idonei a incidere, anche in termini meramente dubitativi, sul compendio degli elementi che hanno portato la Corte territoriale all'affermazione della penale responsabilità per il reato di cui all'art. 612 bis c.p..
2. Il secondo motivo è manifestamente infondato. L'art. 388 c.p., è posto a presidio dell'autorità delle decisioni giudiziarie, mentre gli artt. 612 e 612 bis, sono volti a tutelare la libertà morale della persona offesa e l'art. 614 c.p., l'inviolabilità del domicilio. Nè per l'oggetto giuridico nè per la struttura delle fattispecie è dato comprendere, quindi, come e perchè il reato di cui all'art. 388 c.p., comprenda e assorba tutti gli altri (nessuna congruente argomentazione è stata sviluppata, in proposito, dalla ricorrente).
3. E' solo assertiva l'affermazione che l'abitazione di D. fosse preceduta da un'area non recintata, entro cui era possibile entrare senza violare il domicilio di chi vi abitava. La sentenza impugnata, come quella di primo grado, sono esplicite nel dire, invece, che C. si introdusse abusivamente, in più occasioni, in un'area di esclusiva pertinenza della D. e talvolta addirittura in casa, senza il consenso di chi vi abitava (circostanza confermata dalla zia della D.). Tali circostanze non sono nemmeno prese in considerazione dalla ricorrente, che ignora addirittura le argomentate riflessioni del giudicante.
4. Non è corretto affermare l'assorbimento del delitto di violenza privata in quello di cui all'art. 612 bis c.p., sebbene siano entrambi inseriti nella sezione dedicata ai delitti contro la libertà morale, giacchè il suddetto bene giuridico presenta profili diversi, che esigono tutele diverse. Il delitto previsto dall'art. 612 bis c.p., tende alla protezione del singolo cittadino da comportamenti che ne condizionino pesantemente la vita e la tranquillità personale, procurando ansie, preoccupazioni e paure, ovvero costringendo a modificare comportamenti ed abitudini di vita (per questo, può dirsi che è rivolto alla tutela della persona nel suo insieme, piuttosto che della sola libertà morale). Nella sua struttura è reato abituale e, sebbene la norma faccia riferimento solo a molestie e minacce, quali fonti di responsabilità, deve ritenersi reato a condotta libera, in quanto le minacce e le molestie costituiscono esemplificazione dei comportamenti che possono determinare gli stati patologici sopra considerati, costituenti evento del reato.
La violenza privata è volta alla tutela della libertà morale, nel suo aspetto di libertà individuale; vale a dire come possibilità di determinarsi spontaneamente, secondo motivi propri (libertà di autodeterminazione), e di agire di conseguenza (libertà di azione).
Quindi, tende ad impedire che un soggetto faccia, ometta o tolleri qualcosa perchè costrettovi, con violenza o minaccia, da altri, indipendentemente dalla induzione di uno stato morboso o dalla modificazione delle abitudini di vita.
In altri termini, mentre l'art. 610 c.p., protegge il processo di formazione e di attuazione della volontà personale, l'art. 612 bis, è volto - al pari dell'art. 612 c.p. - alla tutela della tranquillità psichica, ritenuta, con pieno fondamento, condizione essenziale per la libera formazione ed estrinsecazione della volontà suddetta. Pertanto, l'oggetto giuridico di categoria (la libertà morale) esige, per la sua salvaguardia, la protezione di entrambe le sottospecie di beni sopra rassegnati, potendo essere aggredito nell'una o nell'altra manifestazione, oppure in entrambe. Quando quest'ultima situazione si verifica, non vi sono ragioni, quindi, per escludere il concorso di norme, siccome rivolte a tutelare aspetti diversi dello stesso bene.
Alla luce di tali criteri, nessuna censura merita la sentenza impugnata, che ha ritenuto sussistenti entrambi i reati. La violenza privata è stata ritenuta sussistente perchè, in più occasioni, C. costrinse la donna - con violenza verbale e minacce esplicite e contravvenendo alle prescrizioni dettate dal giudice civile - a consegnargli il figlio contro la sua volontà. Si tratta di qualcosa di diverso dalla induzione dello stato di ansia e di timore, preso in considerazione dall'art. 612 bis, che ha indotto la donna a ricorrere alle cure di uno specialista e ad "adeguare il proprio vivere quotidiano a moduli che cercassero di escludere interferenze da parte del C." (pag. 4 della sentenza di primo grado).
5. Manifestamente infondato è il quinto motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta l'entità della pena infintagli. Ed invero, la concreta modulazione della pena appartiene al novero dei poteri discrezionali del giudice di merito, il cui esercizio si sottrae al sindacato in sede di legittimità ove sorretto da idonea motivazione; nel caso specifico, la motivazione addotta, fondata sulla gravità della condotta reiterarla nel tempo e sulle conseguenze da essa derivate, oltre che sui precedenti penali (che non hanno impedito, comunque, alla Corte d'appello di ridurre la pena applicata dal primo giudice), vale a giustificare la modulazione del trattamento sanzionatorio, in misura, peraltro, moderatamente superiore al minimo edittale. Parimenti inammissibile è la censura relativa alla mancata concessione del beneficio della non menzione, posto che nell'atto d'appello (recante la data del 7/11/2011) non ne era stata fatta richiesta.
6. E' fondata, infine, la doglianza relativa alla sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento, entro due mesi dal deposito della motivazione della sentenza d'appello, di quanto stabilito a titolo di provvisionale. Questo Collegio aderisce infatti all'orientamento, maggioritario nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il beneficio della sospensione condizionale della pena non può essere subordinato al pagamento della provvisionale riconosciuta alla parte civile da effettuarsi anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza (da ultimo, Cass., n. 29888 del 2013). Di conseguenza, la sentenza va annullata nella sola parte in cui subordina la concessione del beneficio al pagamento della provvisionale nei ristretti termini stabiliti in sentenza, invece che entro due mesi dal passaggio in giudicato della sentenza d'appello.
Il rigetto dei motivi di ricorso concernenti l'affermazione di responsabilità per i reati contestati comporta che il ricorrente va condannato al pagamento delle spese di rappresentanza sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento della provvisionale entro il termine di due mesi dal deposito della sentenza di appello. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di parte civile liquidate in complessivi Euro 1.200, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 11 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2015

giovedì 4 febbraio 2016

PARERE SU CONCORSO DI REATI (STALKING, VIOLENZA PRIVATA E DIFFAMAZIONE).

Traccia parere.
Caia dopo circa 5 anni di matrimonio con Tizio, durante i quali aveva dato alla luce anche il figlio Tizietto, decide di mettere fine al rapporto matrimoniale e di adire il Tribunale per ottenere la separazione giudiziale dal marito, uomo dalla natura possessiva e prevaricatrice. Il Tribunale, in fase di udienza presidenziale, assegna la casa coniugale alla moglie e stabilisce l’affidamento condiviso del minore con residenza stabile dello stesso presso la madre. Tizio, dal suo canto, da sempre contrario alla separazione, inizia ad avere un atteggiamento vessatorio e violento nei confronti della ex convivente, caratterizzato da continue telefonate, dai toni offensivi e volgari. La sua pretesa di sottomettere la donna alla propria volontà, specie nella gestione del figlio comune e la sistematica inosservanza delle prescrizioni imposte dal giudice civile, ingenerava in Caia uno stato di prostrazione psicologica, costringendola a ricorrere alle cure di uno specialista della mente. In particolare, in molteplici occasioni, Tizio costringeva la donna - con violenza verbale e minacce esplicite e contravvenendo alle prescrizioni dettate dal giudice civile - a consegnargli il figlio contro la sua volontà. Inoltre, al fine di isolarla da tutte le amicizie in comune ed incrementare il suo stato di ansia, aveva raccontato a tutti i conoscenti che il vero motivo della rottura sarebbero state le plurime  e abituali relazioni extraconiugali che la donna teneva con più uomini nella casa coniugale.
A seguito della denuncia di Caia, Tizio si rivolge al vostro studio legale chiedendo parere motivato sulla vicenda. Premessi brevi cenni sul reato abituale e sul concorso di reati, il candidato rediga il suddetto parere.

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