lunedì 18 febbraio 2013

Dolo eventuale e colpa cosciente: criteri discretivi. Focus sulla teoria dell’accettazione del rischio.



 di Fabiola Castellano.

La distinzione tra il dolo eventuale e la colpa cosciente (o con previsione dell’evento) di cui all’articolo 61 n. 3 c.p., è da sempre una delle principali tematiche ad aver generato contrasti sia in dottrina che in giurisprudenza, le quali costantemente dibattono al fine di elaborare un accettabile e condivisibile criterio di differenziazione, atteso il labile confine esistente tra i due istituti.
Le due figure rientrano nell’ambito dell’elemento soggettivo del reato, che può assumere le forme del dolo e della colpa.
Ciò premesso, il dolo eventuale costituisce la forma più lieve del dolo. Esso viene in rilievo tutte le volte in cui il soggetto agente realizza un fatto tipico che, tuttavia, non costituisce l’obiettivo della condotta né una conseguenza certa o altamente probabile, ma egli lo prevede come possibile e accessoria conseguenza della condotta principale, e agisce accettando il rischio che possa verificarsi.
Viceversa, nella colpa cosciente, la quale rappresenta, invece, la forma più grave della colpa, l’agente, che ugualmente si profila la possibilità del verificarsi dell’evento, agisce con la sicura convinzione che esso non si verificherà.
Secondo la dottrina tradizionale (Antolisei) la colpa cosciente ricorre quando l’agente ha previsto l’evento antigiuridico ma non lo ha voluto, perché sorretto dalla “fiducia” che esso non si sarebbe verificato.
Altra dottrina (Bettiol) ritiene, invece, che la colpa cosciente sia caratterizzata dalla “speranza” che l’evento previsto non si verifichi. Altri ancora (Delitala) ritengono, infine, necessaria la convinzione dell’agente che l’evento, malgrado la previsione, non si verificherà.

La Cassazione sul reato di Turbata libertà degli incanti.



CASSAZIONE PENALE – Sez. VI – 3 gennaio 2013 n. 118 – Pres. Agrò – Est. Di Salvo – (Cassa Corte d’Appello di Caltanissetta)
Turbata libertà degli incanti – Tentativo – Fotocopia falsa in luogo dell’originale – inidoneità.
Non integra il tentativo del delitto di turbata libertà degli incanti la condotta di colui che presenta, all’atto di iscrizione ad una gara pubblica, una fotocopia, seppur alterata, contenente l’affermazione del possesso dei requisiti richiesti dal bando qualora venga richiesta la presentazione della documentazione in originale; pertanto, l’esibizione di una copia falsa, in luogo di quella originale prescritta, è inidonea ad arrecare una effettiva ed apprezzabile turbativa alla gara.

Falso del privato in atto pubblico – Turbata libertà degli incanti – Rapporti.
Il delitto di falsità ideologica commesso dal privato in atto pubblico, integrato dalla falsa attestazione resa in dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, rappresenta un reato autonomo che si distingue per oggettività giuridica e per modalità di esplicazione della condotta da quello di cui agli artt. 56 e 353 c.p.

La Cassazione sui rapporti tra il reato di falso e il reato di turbata libertà degli incanti.
del dott. Filippo Camela
La vicenda da cui muove la problematica giuridica de qua origina dalla condotta di un legale  rappresentante di una società il quale, all’atto di iscrizione di una gara di appalto per la fornitura di apparecchiatura di radioterapia e del relativo servizio, attestava falsamente, con dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, che la società possedeva la necessaria capacità economica e finanziaria richiesta dal bando. A comprovare quanto affermato, veniva presentata una copia, apparentemente autentica ma in realtà contraffatta, di una dichiarazione rilasciata da una banca.
Il Tribunale di Caltanissetta, all’esito del giudizio, aveva emesso la sentenza di condanna per i reati di cui agli artt. 56, 353 c.p. (tentata turbativa di libertà degli incanti) e 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico) con l’aggravante di cui all’art. 61, n.2 c.p. (aver commesso il reato per eseguirne un altro).
La Corte di Appello di Caltanissetta aveva confermato tale statuizione.

domenica 17 febbraio 2013

La pluriforme "famiglia" nel delitto di maltrattamenti (Commento a Cassazione penale 17 gennaio 2013 n. 2328)



CASSAZIONE PENALE – Sez. III – 17 gennaio 2013 n. 2328 – Pres. Franco – Est. Amoroso – (Conferma Corte d’Appello di Milano, 4 maggio 2012)

Delitti contro la famiglia – Maltrattamenti – Separazione coniugi – Elemento oggettivo – Rapporto familiare – Sussistenza.
La sussistenza del reato di cui all’art. 572 c.p. non viene meno quando le condotte delittuose riconducibili allo stesso articolo  avvengano in regime di separazione; pertanto i maltrattamenti in famiglia sono rinvenibili anche in evenienze nelle quali sia cessata la convivenza, poiché il regime di separazione lascia intatti i doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e solidarietà, tutti scaturenti dal rapporto matrimoniale. (Nello specifico, il giudice di legittimità ha rigettato l’eccezione della difesa, la quale riconduceva all’art. 612-bis c.p. e non all’art. 572 c.p. determinate condotte moleste e vessatorie, prospettando la cessazione del rapporto “familiare” per intervenuta separazione personale).

LA PLURIFORME “FAMIGLIA” NEL DELITTO DI MALTRATTAMENTI
(Francesco Sollazzo)

La sentenza in esame si colloca lungo quel filone giurisprudenziale ormai consolidatosi in seno alla Suprema Corte, volto ad estendere l’ambito oggettivo di applicabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., operando una sorta di continuo restyling del concetto di “famiglia”, adeguandolo certosinamente alle esigenze del divenire temporale.
La configurazione delle condotte vilipendiose del contesto familiare, e segnatamente nei rapporti personali tra partners, sin dagli anni 80’ annovera ambiti non severamente caratterizzati da un legame di coniugio, sia esso civile ovvero religioso. In questo senso, ai fini di cui all’art. 572 c.p., è racchiudibile tout court ogni contesto di persone tra le quali intercorra un legame di relazioni continuative e di consuetudine di vita affini a quello di una normale famiglia legittima” (Cass. Pen., sez. VI, 18 mag. 1990, n. 7073, Nesti; id. Cass. Pen, sez. III, 13 nov. 1985, n. 1691, Spanu; Cass. Pen., sez. VI, 7 dic. 1979, n. 4084, Segre).

venerdì 8 febbraio 2013

La Cassazione in tema di reati dell'amministratore di condominio.


Cassazione penale, sez. V, 43177 del 2012

Commette il delitto tentato di violenza privata, previsto e punito dagli articoli 56 e 610 c.p., l’amministratore il quale, servendosi di minacce e ostacoli materiali, limita l’accesso dei condomini agli spazi comuni. Si configurano, dunque, atti idonei e diretti in maniera non equivoca a costringere i condomini a non accedere ai luoghi vietati. L’evento non si verifica, e dunque la fattispecie si blocca allo stadio del tentativo, laddove l’obbligo di non fare non sia rispettato, per cause indipendenti dalla volontà del reo.


Nel caso concreto, il soggetto agente veniva condannato dalla Corte di Appello per il reato de quo per aver posto un cartello di “divieto di accesso” su una scala condominiale, utilizzando contestualmente delle tavole aventi la funzione di bloccare materialmente il passaggio. In aggiunta, l’amministratore aveva minacciato il condomino asserendo che non avrebbe consentito a quest’ultimo il transito. La difesa aveva eccepito la irrilevanza della minaccia, nel senso che questa non faceva altro che duplicare quanto già espresso sul divieto di accesso, e l’inidoneità degli altri atti a produrre la costrizione e dunque la compressione della libertà di autodeterminazione in capo al soggetto passivo. Il difensore, basandosi sulla facile amovibilità dei blocchi, riteneva che la condotta non fosse violenta, in quanto facilmente bypassabile dal soggetto passivo. Il giudice di appello, al contrario, rinveniva nel comportamento dell’amministratore l’idoneità a paralizzare la libertà del condomino, e fondava la decisione di condanna, che veniva sostanzialmente confermata dalla Corte di Cassazione. I giudici della Suprema Corte, infatti, rinviavano ad altra sezione di Corte di Appello, solo ai fini di una migliore motivazione in ordine al rigetto della richiesta di applicazione della sospensione condizionale della pena.
(Commento del Dott. Filippo Lombardi)

domenica 3 febbraio 2013

Il caso Sallusti e i risvolti pratici del principio di offensività.


di Filippo Lombardi

TRIBUNALE MILANO, G.M. LA ROCCA, SENT. N. 13380/2012  
Il caso
A seguito della condanna inflitta al Sallusti per la precedente diffamazione commessa nei confronti del Giudice Cocilovo, il Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Sorveglianza di Milano emetteva un’ordinanza con cui l’imputato veniva ammesso alla detenzione domiciliare da scontare presso la propria abitazione. In data 1° dicembre 2012, la predetta ordinanza veniva notificata al Sallusti, il quale veniva accompagnato presso la propria abitazione dagli ufficiali di polizia giudiziaria.
Già nella conferenza stampa del giorno precedente, l’imputato aveva rivelato la propria contrarietà ad essere sottoposto alla citata misura di detenzione, poiché ritenuta ingiusta nei confronti degli altri detenuti, i quali si trovano nelle carceri per scontare pene per gli stessi fatti commessi dal giornalista. Dunque, questi si esprimeva nel senso di non avere la minima intenzione di sottoporsi alla detenzione domiciliare, puntualizzando che la motivazione non fosse da scorgere nell’intento di ribellione rispetto al provvedimento dell’Autorità, ma nei motivi appena citati.
Nel giorno in cui l’ordinanza veniva eseguita, l’imputato manifestava prontamente le proprie remore dinanzi agli ufficiali di p.g., lasciando intuire che fosse prossimo il gesto di allontanarsi dall’abitazione. A tali manifestazioni, seguiva il fatto: il Sallusti lasciava la propria abitazione, accedendo alla pubblica via, commettendo prima facie il reato di cui all’articolo 385 del codice penale, vale a dire il delitto di evasione.
Durante il processo, svoltosi con rito direttissimo dinanzi al Giudice Monocratico del Tribunale di Milano, il pubblico ministero riqualificava il fatto come tentata evasione.

La decisione del Giudice Monocratico
La fattispecie concreta non è sussumibile nel delitto di evasione, nemmeno nella sua forma tentata. Il tentativo, infatti, presuppone atti univoci e idonei a produrre l’evento offensivo del bene giuridico protetto