sabato 10 marzo 2012

I principi fondamentali del diritto penale.


Appunti di diritto penale

di  Filippo Lombardi
 
Il diritto penale può definirsi come la branca del diritto pubblico che si occupa della repressione dei reati. La difficoltà maggiore è stata per l'appunto quella di definire il concetto di reato, e il paradosso di maggior rilievo è che una definizione aprioristica è stata ritenuta impossibile, finendo per poter definire il concetto di reato solo secondo una valutazione ex post, cioè dopo aver analizzato i principi basilari che qualificano il diritto penale come ambito.

Il primo principio fondamentale del diritto penale è il principio di materialità. Questo principio vuol dire che il diritto penale non punirà la mera intenzione. Punirà la condotta materiale che sfocia dall'individuo. Il principio in questione è fondamentale perché ci dà la prima qualificazione di diritto penale. Non si parlerà mai di diritto penale dell'autore, ma di diritto penale del fatto. A ben vedere, quindi, il diritto penale non si pone come scopo quello del rimprovero delle intenzioni, dei pensieri, del modo di essere. Rilevante per esso, sarà invece l'effettiva condotta (attiva o omissiva) che quel soggetto porrà in essere sul piano concreto, sul piano materiale appunto. Il diritto penale non mi punirà nel caso in cui io voglia uccidere taluno e non metta in pratica il mio proposito. Interverrà solo nel caso in cui io faccia "uscire" fuori dalla mia mente l'idea criminosa e uccida effettivamente la mia vittima.

Il principio di materialità è strettamente connesso col principio di offensività, anzi sarà il suo stesso presupposto.
Perché vien da sé che una condotta potrà essere offensiva solo nel caso in cui non rimanga al mero livello di intenzione ma, per prima cosa, si concretizzi al livello materiale. Il principio di offensività, però, è qualcosa di più di quanto finora detto. Una condotta, seppur materiale, non è detto che sia per forza di cose offensiva. Un comportamento di un soggetto sarà offensivo quando effettivamente lede o pone in pericolo un bene appartenente ad un altro soggetto tutelato dall'ordinamento. La lesione o la messa in pericolo devono, cioè, risultare rilevanti per il diritto penale. Vi sono casi in cui effettivamente una condotta integra un reato descritto da una norma di legge, ma la giurisprudenza lo considera tamquam non esset perché non raggiunge un livello rilevante di offesa al bene tutelato dalla norma. La dottrina ritiene di aver riscontrato l'esistenza del principio di offensività nell'articolo 49 co. 2 cod. pen., chiamato normalmente "Reato Impossibile", il quale articolo dispone che non è punibile un soggetto quando risulta che la lesione o la messa in pericolo del bene tutelato dalla fattispecie criminosa sono impossibili a causa dell'inidoneità della condotta a produrle, o a causa dell'assenza dell'oggetto materiale del reato (vedremo successivamente cosa sia quest'ultimo).

Altro principio fondamentale del diritto penale è il principio di frammentarietà, a sua volta strettamente connesso con il principio di sussidiarietà. Il primo significa che il diritto penale protegge solo alcuni beni giuridici, e non li protegge da ogni tipo di aggressione ma solo da alcune modalità di aggressione. Il principio di frammentarietà si atteggia però come criterio valutabile a tre stadi. Il primo stadio è quello appena enunciato (il diritto penale protegge solo alcuni beni giuridici e solo da specifiche modalità di aggressione); il secondo stadio si ha se consideriamo che "non tutto ciò che è immorale è illecito" (il che deriva dal fatto che diritto e morale non sono totalmente sovrapponibili, ma rappresentano due cerchi che si intersecano fornendo una parte in comune); il terzo stadio è riassumibile con la formula "non tutto ciò che è illecito è antigiuridico". Dire quindi che il diritto penale è frammentario, è come usare una sorta di irrinunciabile tautologia: significa dire che questo ramo dell'ordinamento non interviene sempre ma solo in "certi casi", disciplinati ovviamente dalla legge.
Il principio di sussidiarietà, invece, ammette che il diritto penale è sussidiario. Cosa significa "sussidiario"? Originariamente alcuni esponenti della dottrina erano orientati per riconnettervi un significato di "secondarietà" e "accessorietà", con il finire per etichettare il diritto penale come l'ultima ruota del carro, meritevole di intervenire solo quando gli era lasciato spazio per farlo, dagli altri rami dell'ordinamento. La dottrina più moderna ha cambiato visuale, e questo è stato possibile valutando il diritto penale come ramo dell'ordinamento che opera come extrema ratio. Il diritto penale incide sul patrimonio (alla pari di quanto potrebbe fare il diritto civile) ma anche e soprattutto sulla libertà personale, e questo giustifica il fatto che esso, come ramo dell'ordinamento, debba essere usato "con i guanti". Il diritto penale sarà quindi sussidiario in quanto utilizzato come extrema ratio, cioè interverrà solo quando gli strumenti apprestati dagli altri rami dell'ordinamento non offriranno sanzione utile ed efficace a contrastare determinati fatti illeciti. Questa tesi ha spazzato via l'idea dell'accessorietà del diritto penale, conferendo a quest'ultimo la caratteristica dell'autonomia. Ecco perché, volendo ragionare in termini di legame logico, potremmo dire che tutti e tre i concetti sono da leggere come allineati e consequenziali (FRAMMENTARIETA' - SUSSIDIARIETA' - AUTONOMIA).

[Ulteriore principio fondante il diritto penale è il principio di colpevolezza. Per esso si rinvia a futura trattazione.]

Prima di proseguire con un principio cardine dell'ordinamento penale, cioè il principio di legalità, con i corollari che da esso si originano, è bene affrontare il problema del bene giuridico e della definizione di reato dal punto di vista sostanziale.
Il bene giuridico ha ricevuto molteplici definizioni nelle epoche storiche. Birnbaum lo definiva come "ogni interesse o utilità ritenuta meritevole di tutela dalla collettività". Von Liszt apportava come informazione utile il fatto che il bene giuridico fosse un interesse meritevole di tutela pre-esistente al legislatore: il legislatore quindi non faceva altro che trovarlo già insito nel contesto sociale e sceglieva deliberatamente di tutelarlo a livello giuridico-normativo. A Von Liszt si oppone la dottrina che sostiene la concezione metodologica del bene giuridico, dovendosi intendere per bene giuridico un bene di creazione legislativa, cioè un interesse che assurgeva al rango della meritevolezza di tutela solo in quanto il legislatore aveva scelto di proteggerlo in concreto. Secondo la concezione liberale, poi, il bene giuridico era un interesse tutelato dall'ordinamento che, oltre a reperire la dignità di protezione dalle esigenze e dalle preferenze sociali, presentava i caratteri della materialità. E' una concezione parziale e superata del bene giuridico, in quanto i beni effettivamente tutelati dal legislatore moderno sono anche immateriali (es. il pudore, la moralità familiare, il sentimento verso gli animali, l'onore).
Nelle dittature di inizio novecento il bene giuridico veniva irrimediabilmente interpretato in modo da causare il predominio dello Stato rispetto alle istanze dei singoli. Nella Germania nazionalsocialista, infatti, il bene giuridico si incarnava nel Fuhrer, ed era percepito come dovere di fedeltà verso il Fuhrer stesso. Si noti quindi come il bene rappresentava sì un interesse, ma non del singolo individuo, strumentalizzato completamente nei confronti dello Stato, il quale innestava sui consociati solo obblighi e non diritti; nell'Italia fascista, invece, Arturo Rocco suggeriva una impostazione curiosa del concetto di bene giuridico. Egli riteneva innanzitutto che esistesse una bipartizione del concetto: il bene giuridico formale era rappresentato dall'interesse dello Stato alla sua conservazione, mentre quello sostanziale si divideva a sua volta tra generico e specifico. Il primo era rappresentato dall'interesse dello Stato a ricevere obbedienza dai consociati; il secondo era (oseremmo dire: Finalmente!) il bene giuridico in concreto violato, cioè il bene appartenente al singolo individuo leso nella fattispecie concreta. Insomma, il bene giuridico era prevalentemente di pertinenza pubblica e statale e solo alla fine era preso in considerazione come pertinente alla persona. Non stupisce che il nostro attuale codice penale è appunto il Codice "Rocco". E basta sfogliarne l'indice sistematico per comprendere che i primi beni giuridici tutelati sono effettivamente quelli di rilievo pubblico (es. personalità dello Stato, pubblica amministrazione, amministrazione della giustizia), mentre gli interessi della persona sono relegati verso la fine (vita, integrità fisica, libertà di autodeterminazione, domicilio, libertà sessuale, patrimonio, ecc).
La dottrina moderna critica l'impianto codicistico, basandosi su una rivalutazione in chiave costituzionale del primato della persona. La stessa dottrina che, basandosi su tale primato, suggerisce anche modifiche sostanziali in ambito interpretativo dei beni giuridici stessi. Ad esempio, l'indisponibilità del bene vita è giustificato in uno Stato che interpreta la persona come funzionale all'interesse pubblico, ma dovrebbe lasciare il posto ad una più libera autodeterminazione se si valuta come attualmente rovesciato il rapporto Stato-Persona in favore questa volta della persona stessa.
Tra tutte le teorie proposte fin qui, riguardanti la nozione di bene giuridico, nessuna può assurgere a risultato definitivo. La concezione moderna di bene giuridico si fonda proprio sulla Costituzione. Si parla infatti di concezione costituzionalmente rilevante di bene giuridico. Il bene giuridico sarà pertanto ogni interesse protetto a livello costituzionale.

A questo punto si può cercare di dare una doppia definizione del concetto di reato.
Dal punto di vista formale il reato sarà un fatto illecito punito dalla legge penale con l'ergastolo, la reclusione, l'arresto, la multa o l'ammenda. Ne deriva anche una distinzione tra i vari reati dal punto di vista della bipartizione tra delitti e contravvenzioni. I delitti saranno i reati puniti dalla legge penale con l'ergastolo, la reclusione o la multa; le contravvenzioni invece saranno i reati puniti dalla legge penale con l'arresto o l'ammenda.
Dal punto di vista sostanziale il reato potrà essere delineato come "fatto umano illecito, previsto e punito dalla legge penale poiché offensivo di beni giuridici, garantiti a livello costituzionale e non tutelabili attraverso il ricorso alle sanzioni di altri rami dell'ordinamento giuridico".

Continuando a descrivere i contenuti relativi ai principi fondanti l'ordinamento penale, non può omettersi il principio di legalità, condensato nell'articolo 25 comma II della Costituzione, e ripreso dall'articolo 1 del codice penale. Il principio esprime una esigenza dell'ordinamento di reprimere fatti che siano "coperti"  dalla punibilità quando questa sia espressa da una legge entrata in vigore antecedentemente rispetto al fatto stesso. Cioè, il fatto potrà essere punito solo se la legge in vigore al tempo in cui è stato commesso, lo prevede e lo punisce in quanto fatto illecito. Il contenuto dell'articolo 1 è confermato, nel senso predetto, dall'articolo 2 comma 1, che esprime sostanzialmente il principio di irretroattività della norma penale.
Il comma 2 dello stesso articolo si occupa di definire la c.d. abolitio criminis, e instaura il c.d. principio di retroattività della norma penale favorevole al reo Il diritto penale fa cioè propria anche una esigenza di giustizia sostanziale e dispone che non venga punito un soggetto che ha commesso un fatto previsto sì come reato dalla legge del tempo in cui fu commesso, ma che successivamente venga depenalizzato. Chi scrive ritiene che si tratti più che altro di una esigenza connessa alla rieducazione del soggetto. Ci si immagini questa situazione: il carcerato che da dietro le sbarre guarda i consociati compiere lecitamente ciò per il quale egli è stato condannato. Notevole sarà la sua percezione di disuguaglianza sociale, e notevole sarà il suo rifiuto di sottoporsi al trattamento riabilitativo e rieducativo. La persona infatti si sentirebbe come un soggetto per il quale non vi è concreta esigenza di rieducazione, dato che quel fatto è reputato oramai lecito dall'ordinamento.
Il comma 3 dispone la conversione a norma dell'articolo 135 della pena detentiva sostituita con legge posteriore dalla pena pecuniaria. Ad esempio, se la norma dicesse "Chi ruba è condannato alla reclusione da uno a tre anni" e venissa sostituita con una norma modificativa che dica "Chi ruba è condannato a pagare da 1000 a 3000 euro", e il soggetto in concreto era stato condannato ad un anno e 7 mesi, si moltiplicheranno i giorni della pena detentiva per 250 euro per sapere qual è la pena pecuniaria che deve saldare. Ovviamente sarà detratta quella porzione di pena pecuniaria che il soggetto avrà già scontato come pena detentiva.
Il comma 4 ci dice invece che se non vi è stata l'abolitio criminis di cui all'articolo 2 comma 2, e nemmeno vi è stata la mera modifica da pena detentiva a pecuniaria di cui al comma 3, ma vi è stata semplicemente una modifica legislativa della norma applicabile al caso concreto, prima che vi sia stata sentenza irrevocabile, si applicherà, ai fini della sentenza, appunto, la norma più favorevole al reo.
Questo comma ha causato parecchi grattacapi alla dottrina e alla giurisprudenza, poiché non chiarisce evidentemente quale sia il discrimine tra abolitio e successione (cioè modifica) di norme.
Sono state proposte due teorie risolutive.
Teoria della continuità (o continuazione). Secondo questa teoria, bisognerebbe valutare se vi è in concreto una norma che mantenga inalterati il bene giuridico e le modalità di aggressione a quest'ultimo. Nel caso in cui nessuno dei due è mantenuto inalterato, ci sarà abolitio. Nel caso in cui uno persista e l'altro sia diverso, ci sarà successione.
Teoria della continenza. Secondo questa visione, invece, vi sarebbe abolitio nel caso in cui la norma pre-esistente sia speciale rispetto a quella susseguente. Vi sarebbe successione nel caso inverso, cioè quando la norma pre-esistente sia generale rispetto alla norma susseguente. Dal punto di vista pratico, la norma più favorevole, nel caso in cui si tratti di successione, sarà riscontrata concretamente. Il giudice, cioè, dovrà valutare quale sarebbe la sanzione effettiva che applicherebbe con il ricorso separato alle due norme. Paragonerà i due risultati, e applicherà quello più favorevole alla parte.
Il penultimo comma esprime un principio che fa eccezione al tenore della norma. Dispone che tutto ciò che troviamo scritto nell'articolo 2, più precisamente dai commi 2 a 4, non si applica alle leggi eccezionali, temporanee o finanziarie. Vigerà il principio per cui al reo verrà applicata la pena del tempo in cui fu commesso il reato. Se la norma temporanea ad esempio indichi (a titolo puramente esemplificativo) che chi commette l'omicidio, nel periodo che la legge mira a regolare, non verrà punito con la reclusione ma direttamente con l'ergastolo, a nulla varrà che la legge sia temporanea e che quindi poi tornerà la normale pena della reclusione. Chi ha commesso il fatto sotto la vigenza della legge temporanea verrà punito con quella pena e non si applicherà l'ipotesi di abolitio di cui all'art. 2 comma II, nè quella di cui al comma IV. Perchè? Perchè altrimenti l'applicabilità del principio di cui al comma II o al comma IV potrebbe alimentare fenomeni criminali commessi da chi sa che poi (se non esistesse il comma V), scomparendo la norma severa, godrebbe di sanzioni più garantiste o addirittura andrebbe impunito.
L'ultimo comma (VI) ci indica che le ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano anche ai decreti legge non convertiti o convertiti con modifiche. La Corte Costituzionale ha però avuto qualcosa da ridire su questo comma. E con la sentenza n. 51 del 1985 ha indicato che il comma de quo è illegittimo costituzionalmente nel momento in cui rende applicabili le ipotesi garantiste del secondo e quarto comma anche ai fatti commessi antecedentemente all'entrata in vigore del decreto legge. Quindi i principi richiamati dal sesto comma dell'articolo 2 cod. pen. saranno applicabili solo ai fatti commessi durante la vigenza del decreto legge.
ESEMPLIFICANDO. Tizio commette il fatto illecito sotto la vigenza del decreto legge. La pena prevista dal decreto è 2 anni di reclusione. Il decreto legge non è convertito, e quindi ritorna la pena prevista originariamente, prima dell'entrata in vigore del decreto. Se questa pena è più favorevole di quella del decreto legge, essa si applicherà. Se la pena del decreto legge è più lieve della pena antecedente, si applicherà quella del decreto legge. Stesso discorso per il caso di abolitio criminis.

Problemi interpretativi si incontrano quando si parla di norma penale dichiarata incostituzionale. Come è noto, la norma (qualsiasi, anche non penale) dichiarata incostituzionale non può trovare applicazione dal giorno dopo la pubblicazione della decisione della Consulta. Ciò significa che la dichiarata illegittimità di una norma opera retroattivamente (ex tunc). Nulla quaestio qualora si tratti di norma penale sfavorevole al reo. Essa non sarà applicabile dopo la sentenza della Corte. Problemi, a quanto pare irrisolti, si pongono nel caso in cui la norma espunta sia una norma penale di favore.

Ci avviamo ora alla conclusione di questa prima parte della trattazione, presentando gli ultimi principi fondamentali del diritto penale. Si tratta di tre principi che, assieme al principio di irretroattività della norma penale, contraddistinguono tre corollari del principio di legalità.
Il primo è il principio della riserva di legge. Secondo questo principio è la legge, intesa come fonte primaria ordinaria (cioè scaturente dal procedimento legislativo) a dover/poter occuparsi della creazione di norme penali. Il principio però è snaturato già in partenza poiché, contrariamente a quanto vorrebbe la dottrina maggioritaria, anche gli atti aventi forza di legge si occupano in concreto dell'emanazione di tale tipo di norme. La legge regionale non può creare norme penali, e nemmeno la normativa comunitaria. Quest'ultima può, con l'ausilio di validi strumenti di omogeneizzazione normativa, quali sono le direttive comunitarie, suggerire agli stati la necessità, alla luce degli orientamenti delle istituzioni europee, di improntare la legislazione penale a certi canoni tutelando determinati beni giuridici. E' poi nel potere dello Stato seguire queste "raccomandazioni". Per quanto concerne il rapporto tra consuetudine e norma primaria, è stato ritenuto che la consuetudine ammissibile sia quella secundum legem (cioè richiamata dalla norma di legge) e quella praeter legem ( che rimpiazza una lacuna di legge) solo quando sia favorevole al reo. Non è ammessa assolutamente la consuetudine contra legem, cioè la desuetudine. Dal punto di vista del rapporto tra norma primaria e norma secondaria, la Corte Costituzionale ha sciolto un nodo importante sul contributo di regolamenti amministrativi nella definizione delle fattispecie penali. Secondo la Corte, infatti, sono possibili due tipi di interazioni che non violerebbero il paradigma della legalità:
1) La norma secondaria può apportare il proprio contributo alla norma primaria attraverso una integrazione tecnica. Tale integrazione servirebbe a specificare meglio elementi della fattispecie penale.
2) La norma penale potrebbe sanzionare l'inosservanza di provvedimenti di autorità diverse da quella giudiziaria, a patto che sia la norma primaria a identificare presupposti, contenuti e limiti di tali provvedimenti.

Altro corollario del principio di legalità è il principio di tassatività. Esso riguarda in primo luogo la tecnica normativa. Il Legislatore dovrebbe scrivere la fattispecie astratta fornendole tutti gli elementi in modo tale che al lettore, cioè al destinatario della norma giuridica, sia effettivamente chiaro il limite tra lecito e illecito. Il principio di tassatività è quindi rispettato quando il tenore letterale della norma è chiaro a chi legge. Balzano subito all'occhio i limiti intrinseci di questo principio, cioè la sua tendenziale ambiguità, innanzitutto con la lingua italiana in sé, che non è sempre specifica, e in secondo luogo con l'esigenza che il legislatore al contempo deve tutelare quando si tratta di normazione primaria, cioè garantire l'astrattezza e la generalità. L'astrattezza, spesso, comporta l'adozione di vocaboli di per sé ambigui. La fattispecie normativa si comporrà quindi di tre tipi di elementi: gli elementi descrittivi, gli elementi normativi giuridici, e gli elementi normativi extra-giuridici. I primi fanno riferimento alla realtà naturalistica e sensoriale, e trovano i loro significati nella vita quotidiana e nell'ambiente circostante il soggetto agente. I secondi sono elementi che rimandano a concetti che si trovano in altre norme dell'ordinamento, e in questo caso il diritto penale richiede al soggetto agente di avere una conoscenza "parallela nella sfera laica", cioè non una conoscenza tecnica ma una conoscenza che renda comunque chiaro il significato pratico del concetto normativo (es. altruità della cosa, nel furto). I terzi sono concetti che appartengono alla comunità sociale, al comune sentire, e il cui significato non sia affrontato da norme dell'ordinamento giuridico (ad es. il concetto di "pudore"). Le questioni di legittimità costituzionale che sono state sollevate rispetto a norme poco chiare, sospettate di andare contro il principio di tassatività, sono sempre state rigettate o dichiarate infondate, sulla base delle seguenti considerazioni:

L'interprete del diritto, qual è il giudice, potrà sempre orientarsi validamente nei significati di una norma giuridica. Nei casi più problematici potrà fare ricorso ai significati prevalenti che emergono dal diritto vivente. Per gli elementi descrittivi sarà fondamentale l'opera definitoria della scienza. Per i concetti normativi extra-giuridici sarà pure fondamentale l'opera interpretativa teleologicamente orientata, del Giudice di Legittimità, che dovrà adeguare i vari concetti problematici ai significati ad essi ricollegabili in base all'epoca storica e ai valori, agli usi, e ai significati prevalenti che emergono dallo specifico contesto sociale di riferimento. Poiché criteri rilevanti per il rispetto del principio di tassatività non sono solo quelli connessi con la buona opera legislativa descrittiva, ma anche con la concreta verificabilità empirica della fattispecie. 

Ultimo corollario del principio di legalità è il principio di tipicità, anche detto del divieto di analogia. Cosa vuol dire? Che la norma penale disciplina solo ed esclusivamente (e quindi è applicabile solo al)le ipotesi che possano riconnettersi effettivamente agli elementi della fattispecie astratta. Cioè si applica solo alle situazioni che esprimano sul piano pratico ciò che è contemplato a livello normativo, le situazioni che "rientrano" nel tenore letterale della norma astratta e generale. Da ciò, ci si muove per delinearne un effetto, che è appunto quello della impossibilità di ragionare in termini di interpretazione analogica nel diritto penale. Innanzitutto è bene specificare che l'interpretazione analogica è possibile in generale per la norma giuridica, perchè permessa dall'art. 12 delle Preleggi, che si occupa di orientare l'attività dell'interprete. La norma giuridica generale va interpretata prima secondo il senso letterale, cioè quello fatto proprio dalle parole e dalla interconnessione di esse. Qualora non sia possibile risalire al significato della norma in questo modo, si utilizzerà come parametro la volontà del legislatore. Secondo la giurisprudenza e la dottrina, essa dovrà essere "adattata ai tempi che corrono", e quindi non dovrà essere considerata come volontà statica ma orientata finalisticamente all'epoca in cui opera l'interprete. Ecco perchè sopperisce in tal senso l'interpretazione c.d. teleologica della norma, cioè la norma viene attualizzata, e viene sfruttata la sua ratio per proteggere efficacemente le istanze attuali che la coinvolgono. 
L'art. 12, poi, fa riferimento a due tipi di analogia, per superare gli eventuali ostacoli all'utilizzo dei precedenti criteri interpretativi: l'analogia legis e l'analogia iuris. L'analogia iuris è sussidiaria rispetto alla prima, e permette di ricavare il significato della norma giuridica dal contesto giuridico di riferimento, cioè dal rapporto con le altre norme dello stesso ambito sistematico. L'analogia legis permette di applicare ad una fattispecie che non rientri in una norma definita, una norma diversa che regola casi o materie analoghe. L'analogia legis è più complessa, perchè richiede un doppio ragionamento. Innanzitutto serve una fattispecie non coperta da una norma di legge. In secondo luogo, bisogna rintracciare un'affinità con una situazione coperta da una norma apposita, e in terzo luogo bisognerà valutare se la norma che disciplina la fattispecie si fonda su una ratio in grado di proteggere anche la norma sfornita di protezione normativa. Una disputa dottrinaria sorgeva in merito all'applicabilità di suddetto meccanismo interpretativo al diritto penale. La questione è stata sciolta ritenendo che l'unica analogia utilizzabile sia quella improntata al favor rei, e troverebbe il massimo riconoscimento nell'applicazione analogica delle scriminanti. 

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