mercoledì 27 ottobre 2010

La Cassazione ribadisce l’autonomia dei reati uniti dal vincolo della continuazione.

Cassazione penale, sez. II, 20 luglio 2010, n. 28192.
Cassazione penale, Sezioni Unite, 23 gennaio 2009, n. 3286.

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Seconda sezione penale della Cassazione affronta nuovamente, allineandosi a quanto stabilito dalle Sezioni Unite, il problema relativo alla autonomia giuridica delle singole violazioni che confluiscono nel reato continuato.
In particolare, relativamente all’aggravante della rilevanza economica del pregiudizio patrimoniale (art. 61 c.p., n. 7) ed alle attenuanti della speciale tenuità (art. 62 c.p., n. 4) e dell’intervenuto risarcimento (art. 62 c.p., n. 6), si è posta la questione se l’entità del danno e l’efficacia della condotta riparatoria debbano essere valutate in relazione ad ogni singolo reato ovvero al complesso di tutti i fatti illeciti avvinti dalla continuazione.
Dalla soluzione nell’uno o nell’altro senso ne discenderebbero, infatti, importanti conseguenze: 1) sulla individuazione del reato più grave; 2) sulla determinazione della pena-base, nel caso in cui la sussistenza della circostanza riguardi la violazione ritenuta più grave; 3) sulla determinazione del “quantum” dei rispettivi aumenti di pena, in caso di circostanza inerente ad uno ovvero a più tra gli altri reati posti in continuazione.
Nel caso di specie Tizio era stato dichiarato responsabile, in primo e secondo grado, di diversi delitti di furto e rapina commessi tra gennaio e marzo 2003, tutti reati collegati, secondo i giudici di merito, dal vincolo della continuazione.
Avverso la sentenza d’appello il difensore dell’imputato proponeva ricorso in Cassazione, deducendo, tra gli altri motivi, quello di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al diniego delle attenuanti di cui agli artt. 62 c.p. n. 6 e 625 bis c.p..
La Cassazione accoglie il motivo di ricorso relativo alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 625 bis c.p. (“Nei casi previsti dall’art. 624, 624 bis. e 625 la pena è diminuita da un terzo alla metà qualora il colpevole, prima del giudizio, abbia consentito l’individuazione dei correi o di coloro che hanno acquistato, ricevuto od occultato la cosa sottratta o si sono comunque intromessi per farla acquistare, ricevere od occultare.”).
 Al riguardo la Corte territoriale, sulla base di una concezione unitaria del reato continuato, aveva negato la astratta concedibilità dell'attenuante, osservando come la stessa rilevi solo in relazione ai reati di furto che nel procedimento sono considerati come reati satelliti, rispetto al più grave delitto di rapina.
Tale concezione unitaria, per cui le valutazioni attenuative dovevano riferirsi a tutti i reati unificati e non solo a quello più grave o a taluno di essi, è stata però bocciata dalle sopraccitate Sezioni Unite che hanno affermato “che in tema di continuazione, la circostanza attenuante dell'integrale riparazione del danno va valutata e applicata in relazione a ogni singolo reato unificato nel medesimo disegno criminoso”. (Cass. pen., Sezioni Unite, 23 gennaio 2009, n. 3286).
In altre parole, il reato continuato si configura quale particolare ipotesi di concorso di reati che va considerato unitariamente solo per gli effetti espressamente previsti dalla legge, come quelli relativi alla determinazione della pena, mentre, per tutti gli altri effetti non espressamente previsti, la considerazione unitaria può essere ammessa esclusivamente a condizione che garantisca un risultato favorevole al reo.
Quindi, superata la concezione dell'unitarietà del reato continuato, ciascuna fattispecie di reato riacquista la sua autonomia, sia quanto a pena edittale, sia quanto a pena applicata o applicabile in concreto e va considerato anche a tali fini come una pluralità di illeciti.
Sulla base di questo ragionamento, nel caso di specie, l'attenuante dell'art. 625 bis c.p. deve, allora, essere valutata in relazione ad ogni singolo reato satellite di furto, potendo incidere sulla determinazione del "quantum" dei rispettivi aumenti di pena, in caso di circostanza inerente ad uno ovvero a più tra gli altri reati posti in continuazione.
Per questi motivi, la Cassazione annulla la sentenza impugnata limitatamente al diniego della circostanza attenuante di cui all’art. 625 bis c.p. per i reati satelliti di furto, con rinvio alla Corte d’appello per un nuovo giudizio sul punto.

giovedì 21 ottobre 2010

Le Sezioni Unite sulla compatibilità della ricettazione con il dolo eventuale.

Cassazione penale, Sezioni Unite, 3 marzo 2010, n. 12433.

Nella sentenza in esame le Sezioni Unite penali affrontano il problema della compatibilità, o meno, tra il diritto di ricettazione, di cui all’art. 648 c.p., e la figura del dolo eventuale.
Il caso è quello di Tizio che consegnava all’operatore di un casello autostradale una tessera Via Card che l’operatore stesso provvedeva subito a ritirare perché risultava essere stata rigenerata illecitamente varie volte.
Tizio si giustificava sostenendo di aver acquistato la tessera, in un’area di servizio, da uno sconosciuto, che gliela aveva venduta per essere rimasto senza carburante e denaro.
Secondo l’orientamento più risalente della Cassazione, il delitto di ricettazione non è compatibile con il dolo eventuale “poiché la eventualità che la cosa che si acquista o comunque si riceve, provenga da delitto equivale al dubbio, mentre l’elemento psicologico della ricettazione esige la piena consapevolezza della provenienza delittuosa dell’oggetto. Per contro, il dubbio motivato dalla rappresentazione della possibilità dell’origine delittuosa dell’oggetto integra la specifica ipotesi di reato prevista dall’art. 712 c.p., che punisce l’acquisto di cosa di sospetta provenienza”.(Cass., sez. II, 14 maggio 1991, n. 9271, Castelli)
In senso contrario, invece, un altro filone giurisprudenziale ha affermato che l’agente risponderà di ricettazione tutte le volte che la sua condotta sia sorretta da dolo, anche eventuale, non emergendo affatto, dalla lettera dell’art. 648 c.p., la necessità della effettiva conoscenza della provenienza delittuosa del bene.
A conferma di ciò, per evitare qualsiasi concorso apparente di norme, il legislatore avrebbe previsto la punibilità dell’incauto acquisto (art. 721 c.p.) solo a titolo di colpa.
Le Sezioni Unite, affermata la generale compatibilità del dolo eventuale con i “reati causalmente orientati e connotati dal riferimento ad un reato presupposto”(l’agente deve rappresentarsi l’insussistenza dei presupposti come certa o come possibile accettando l’eventualità della loro esistenza), risolve il contrasto sopra illustrato criticando entrambe le posizioni e non aderendo pedissequamente a nessuna delle due.
In particolare, la Corte afferma che “Il delitto di ricettazione è compatibile con il dolo eventuale, per la configurabilità del quale, tuttavia, si richiede più di un semplice motivo di sospetto, rispetto al quale l’agente potrebbe avere un atteggiamento psicologico di disattenzione, di noncuranza o di mero disinteresse: è necessaria una situazione fattuale di significato inequivoco, che imponga all’agente una scelta consapevole tra l’agire, accettando l’eventualità di commettere una ricettazione, e il non agire. Il dolo eventuale, in altre parole, sussiste allorchè l’agente, rappresentandosi l’eventualità della provenienza delittuosa della cosa, non avrebbe agito diversamente anche se di tale provenienza avesse avuto la certezza”.

domenica 17 ottobre 2010

Le Sezioni Unite riconoscono la figura della corruzione in atti giudiziari “susseguente”. (c.d. caso Mills)

Cassazione penale, Sezioni Unite, 25 febbraio 2010, n. 15208.

La questione giuridica affrontata dalle Sezioni Unite, dirimendo un contrasto interno alla Sesta sezione penale, è quella di stabilire “se il delitto di corruzione in atti giudiziari sia configurabile nella forma della corruzione susseguente”.
La vicenda è quella di Tizio che, deponendo come testimone in un processo a carico del noto imprenditore Caio, ometteva di dichiarare quanto a sua conoscenza in ordine al ruolo di Caio nella struttura di società offshore creata dallo stesso Tizio, struttura fuori bilancio utilizzata nel corso del tempo per attività illegali e operazioni riservate del “Television Group”. In particolare egli non riferì ai giudici quanto sapeva in ordine alla proprietà e al controllo delle società offshore della “Televisione Group” e di conseguenza non rivelava che delle stesse erano beneficiari lo stesso Caio, Mevio e Sempronio., e che il controllo era esercitato da fiduciari della famiglia di Caio.
Per averlo tenuto indenne dalle accuse, Caio ricompensava Tizio, successivamente alla deposizione, con una somma di 600.000 dollari.
Per comprendere il problema, davvero molto spinoso e non definitivamente risolto da questa sentenza, è opportuno innanzitutto avere ben presente il testo dell’art. 319 ter c.p..
Art. 319 ter Corruzione in atti giudiziari: “Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da tre a otto anni. Se dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena e’ della reclusione da quattro a dodici anni; se deriva l’ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all’ergastolo, la pena e’ della reclusione da sei a venti anni”. (Articolo aggiunto dalla L. 26 aprile 1990, n. 86)
A questo punto bisogna valutare la compatibilità di questa fattispecie criminosa con la forma “susseguente” di corruzione, che si ha quando la retribuzione concerna un atto già compiuto in precedenza da parte del pubblico ufficiale.
Secondo un primo orientamento (che si rinviene in Cass., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, Battistella e altri) non è ipotizzabile la corruzione in atti giudiziali nella forma susseguente.
Il dato normativo che gioca un ruolo decisivo nella ricostruzione interpretativa di detta sentenza è racchiuso nell’inciso “per favorire o danneggiare una parte…”, che evidentemente si riferisce al mercimonio di un atto futuro, per il cui compimento il pubblico ufficiale assume un impegno.
Un diverso ragionamento, che ricomprendesse nell’area di tipicità della norma anche la mera retribuzione si atti pregressi, si risolverebbe in una forzatura interpretativa in malam partem con l’attribuzione di una valenza anche causale, oltre che finale, dell’espressione “per favorire o danneggiare”, come se ad essa fosse affiancata anche quella “per aver favorito e danneggiato”. Una lettura di questo tipo sarebbe in contrasto con il principio di tassatività.
La dottrina, largamente a favore di questo indirizzo, ha altresì evidenziato che il dolo specifico caratterizzante la fattispecie di cui all’art. 319 ter c.p. sarebbe assolutamente incompatibile con l’ipotesi di “corruzione susseguente” contraddistinta necessariamente da un dolo di tipo generico. Ciò discenderebbe dalla incompatibilità di un comportamento proteso ad ottenere un evento successivo (i fatti sono commessi “per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo) con la già avvenuta realizzazione dell’atto contrario ai doveri d’ufficio.
Un orientamento nettamente difforme si rinviene in altre decisioni della Sesta Sezione e, in particolare, nella sentenza 3 luglio 2007, n. 25418, Giombini e altro.
In quest’ultima pronuncia i giudici di legittimità affermano che il richiamo dell’art. 319 ter c.p. all’integrale contenuto degli artt. 318 e 319 c.p., impone l’adattamento della struttura della corruzione in atti giudiziari ad ambedue i modelli, della corruzione antecedente e di quella susseguente.
L’ampiezza della disposizione incriminatrice, che racchiude tutte le ipotesi di corruzione (propria e impropria, antecedente e susseguente), assoggettandole alla medesima pena, troverebbe ragione nelle tutela della funzione giudiziaria, costituzionalmente prevista per il riconoscimento dei diritti fondamentali e la il rispetto del principio di legalità.(Sul punto v. amplius Cass., sez. VI, 18 settembre 2009, n. 36323, Drassich)
Quanto all’elemento soggettivo, la “corruzione in atti giudiziari susseguente” sarebbe caratterizzata dal dolo generico della corruzione generica e dal dolo specifico proprio della corruzione in atti giudiziari che però si atteggia ad elemento antecedente della condotta tipica.
Le Sezioni Unite aderiscono al secondo dei due orientamenti sopra illustrati, sancendo, dunque, la configurabilità della “corruzione in atti giudiziari susseguente”.
A sostegno di questa scelta i giudici di legittimità adducono innanzitutto il dato letterale dell’art. 319 ter, che inequivocabilmente riconnette la sanzione in esso prevista “ai fatti indicati negli artt. 318 e 319 c.p.”, disposizioni che contemplano tutti i tipi di corruzione: propria, impropria, antecedente e susseguente. Una interpretazione di diverso tipo violerebbe, secondo la Corte, il principio di legalità.
La peculiarità dell’art. 319 ter c.p. sarebbe quella di riconnettere a tutti i fatti indicati negli artt. 318 e 319 c.p. la finalità di “favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”.
Ciò che conta, dunque, è la finalità perseguita al momento del compimento dell’atto del pubblico ufficiale: se essa (per qualsiasi motivo: ad esempio, rapporti di amicizia o di vicinanza culturale o politica; prospettive di vantaggi economici o benefici pubblici o privati) è diretta a favorire o danneggiare una parte in un processo, è indifferente che l’utilità data o promessa sia antecedente o susseguente al compimento dell’atto, come pure è irrilevante stabilire se l’atto sia o non sia contrario ai doveri d’ufficio.
Da ultimo si evidenzia il rapporto di specialità intercorrente tra la corruzione “comune” di cui agli artt. 318 e 319 c.p. e la corruzione in atti giudiziali, con la conseguenza che la species di cui all’art. 319 ter c.p. non può non contenere tutti gli elementi del genus, ai quali si aggiunge l’elemento specializzante di essere commessa per favorire o danneggiare una parte.


giovedì 14 ottobre 2010

Inquinamento elettromagnetico: inconfigurabilità del reato di getto pericoloso di cose per il mero superamento dei limiti tabellari.

Cassazione penale, sez. III, 8 aprile 2010, n. 17967

Con la sentenza in questione, la Suprema Corte si occupa, in tema di inquinamento elettromagnetico, del problema della qualificazione del reato di getto pericoloso di cose (art. 674 c.p.) come reato di “pericolo astratto” o di “pericolo concreto”.
La vicenda è quella di una nota società telefonica che colloca su di un condominio un impianto di telefonia mobile. In seguito a dei controlli veniva riscontrato che i valori di emissione delle onde elettromagnetiche erano superiori alla norma e che le condizioni di salute di due condomini si erano aggravate a seguito dell’installazione dell’impianto. Sulla base di tali elementi il giudice penale provvedeva al sequestro dell’impianto.
Ricorreva per cassazione la società deducendo la violazione dell’art. 674 c.p..
La Cassazione accoglieva il ricorso, specificando che in tema di inquinamento elettromagnetico, il reato non è configurabile neppure astrattamente in base al mero superamento, da provare oggettivamente, dei limiti d’esposizione o dei valori di attenzione previsti dalle norme speciali (d.m. ambiente 10 settembre 1998 n. 381; d.p.c.m. 8 luglio 2003), occorrendo anche l’idoneità delle onde elettromagnetiche ad offendere o molestare persone.
Questa decisione è l’ultima di una serie (cfr. 15710, 15711, 15712, 15713, 15714, 15715, 15716 del 2009) con cui la Sez. III della Cassazione ha evidentemente  voluto precisare la natura di reato di pericolo concreto della fattispecie di cui all’art. 674 c.p., in cui è necessario conseguire la prova concreta di un’effettiva idoneità delle onde elettromagnetiche a ledere o molestare.
In senso contrario, si era espressa in precedenza la Cassazione (14 marzo 2002, Rinaldi) che, qualificando il reato contravvenzionale come fattispecie di pericolo astratto, aveva ritenuto sufficiente per la sua configurazione il mero superamento dei limiti tabellari quale ratio presuntiva ex lege di un pericolo di nocività per la salute o di molestia per le persone.  

martedì 12 ottobre 2010

Inconfigurabilità del reato di molestia tramite l'invio di e-mail.

Cassazione penale, sez. I, 30 giugno 2010, n. 24510
La questione giuridica che si è trovata ad affrontare la Cassazione in questa sentenza è quella della sussumibilità sotto l’art. 660 c.p. (molestia alle persone) di una condotta consistente nell’invio di corrispondenza elettronica sgradita, che provochi turbamento o, quanto meno, fastidio.
Il caso è quello di Tizio, imputato della contravvenzione di molestia alla persona, per aver inviato, con la posta elettronica, a Mevia un messaggio contenente “apprezzamenti gravemente lesivi della dignità e dell’integrità personale e professionale” del convivente della destinataria.
Per meglio comprendere il problema è opportuno riportare integralmente il testo dell’art. 660 c.p.(molestia o disturbo alle persone):Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a lire un milione”.
Il giudice di primo grado, considerando le condotte incriminate dall’art. 660 c.p. non tassative ma legate all’evolversi dei mezzi tecnologici disponibili, aveva ricondotto all’espressione “col mezzo del telefono” anche l’invio di messaggi di posta elettronica. In proposito argomentava sulla base del fatto che la Cassazione (5 maggio 1978, n. 8759, Ciconi) aveva affermato che la dizione “col mezzo del telefono” comprendeva anche “la molestia e il disturbo arrecati con altri analoghi mezzi di comunicazione a distanza (citofono, ecc.)”.
Nel caso di specie, però, la Suprema Corte boccia l’interpretazione estensiva operata dal giudice di merito, sulla base del fatto che l’invio di un messaggio di posta elettronica non comporta, a differenza della telefonata, nessuna immediata interazione tra mittente e destinatario.
Il mezzo del telefono,infatti, assume rilievo – ai fini dell’ampliamento della tutela penale, altrimenti limitata alle sole molestie avvenute in luogo pubblico – proprio per il carattere invasivo della comunicazione telefonica, alla quale il destinatario può sottrarsi solamente disattivando l’apparecchio telefonico.

lunedì 11 ottobre 2010

L'errore medico interrompe il nesso di causalità?

Cassazione penale,  sez. IV, 18 febbraio 2010,  n. 11212.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Cassazione affronta nuovamente il problema della configurabilità dell’errore medico come “concausa sopravvenuta” idonea, ai sensi del 2° comma dell’art. 41 c.p. ad interrompere il nesso di causalità.
La vicenda è quella di Tizio che dopo aver accusato malore per diversi giorni, veniva ricoverato presso l'ospedale di (OMISSIS) ove decedeva alcuni giorni dopo. La morte veniva attribuita a tossinfezione da botulismo, a seguito dell'assunzione di funghi sott'olio contaminati con i quali gli era stato confezionato un panino in un esercizio del luogo, gestito da Mevia. Costei avrebbe venduto il prodotto sebbene fosse risultato deteriorato al momento dell'apertura della confezione.
 Durante il ricovero in ospedale i medici avevano omesso di compiere le indagini diagnostiche a fronte dell'anamnesi e della sintomatologia che deponevano per una tossinfezione da botulino e non avevano praticato terapie che con altissima probabilità avrebbero evitato la morte.
Il difensore di Mevia rilevava che il riconosciuto errore diagnostico e terapeutico dei sanitari avrebbe dovuto indurre a ritenere l'interruzione del nesso causale, con conseguente assoluzione della sua assistita.
La Corte di Cassazione, al contrario, ha stabilito che “l'ipotizzato errore terapeutico con tutta evidenza non può svolgere l'invocato effetto interruttivo del nesso causale. La costante, condivisa giurisprudenza di questa Corte è nel senso che l'errore medico non è normalmente estraneo all'area di rischio innescata dall'originaria condotta lesiva. Nel caso di specie tale congruenza di rischio si mostra in modo chiaro, posto che l'errore riguarderebbe, comunque, proprio la diagnosi della patologia innescata dalla condotta colposa”.
La Cassazione, in altre parole, ha ribadito e precisato che l’errore del medico, anche se grave, non può costituire causa autonoma e indipendente rispetto al comportamento dell’agente che, provocando il fatto lesivo, ha reso necessario l’intervento dei sanitari.
Quanto detto vale ancor di più nei casi, come quello di specie, di errore per omissione che, per sua natura, non prescinde mai dall’evento che ha fatto sorgere l’obbligo delle prestazioni sanitarie.



domenica 10 ottobre 2010

La truffa come delitto a "consumazione prolungata"

Nella sentenza n. 8805 del 2010 la sez. II della Corte di Cassazione, con particolare riferimento alla "truffa finalizzata all'assunzione ad un pubblico impiego", prende una netta posizione sull'inquadramento di tale reato come delitto a "consumazione prolungata".
Con evidenti ripercussioni sul calcolo della prescrizione, nel caso di specie, la Corte ha affermato che la truffa perdura fino a quando persiste l'esborso di pubblico denaro in cambio di servizi espletati da soggetto non qualificato.
In altre parole, la percezione di ratei di retribuzione, nell'ipotesi di assunzione di un soggetto privo dei requisiti professionali richiesti, non costituisce un post factum non punibile, bensì integra proprio sia l'ingiusto profitto per l'agente truffaldino, sia il danno per la pubblica amministrazione.

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